LA BELLEZZA E L'IMPOTENZA
MASSIMO T. MAZZA
21 gen 2014
LA BELLEZZA E L'IMPOTENZA

A lu pais grandi barriti televisivi e paginate di giornali per il Golden Globe a “La grande Bellezza”. Il film è intelligente, gradevole nel suo cinismo salottiero, ben girato e ottimamente interpretato ed è giusto, chiariamo, che ogni regista e casa di produzione vada a cercarsi il successo dove è possibile. Il problema è che questo film, come ohimè orgogliosamente dice la Aspesi su La Repubblica, fa di nuovo parlare il Mondo dell’Italia. Di un’Italia intelligentemente virata dal regista in colori crepuscolari e critici, ma un’Italia dove ancora è possibile vivere, seppure à la fin de la decadence, le emozioni di un luogo che ha a che fare con la bellezza globale.

Il Golden Globe, con la sua semplificata analisi mediatica e commerciale, finisce per riconoscere e riconoscerci questa paternità e proprietà, ma, al di là dell'auspicabile successo del film e delle apparenze, i motivi di questa accoglienza favorevole sono drammatici.

In sostanza è come se l'Italia nel mondo civilizzato piacesse ancora per le tovaglie a quadri dei ristoranti, per i vogatori muscolosi delle gondole e per i napoletani simpatici - gorgheggianti - furbacchioni - sfornatori di pizze. E' come se noi amassimo e identificassimo il fascino degli USA in un film in cui i neri americani parlano come Mamy nel doppiaggio di Via col Vento (Zi Badrone) anziché confrontarci con una potente e cinica coppia di fichissimi afro americani che oggi è al comando.

Ripeto, non è colpa del film, ma purtroppo credo che l'Italia sia amata per qualcosa che fondamentalmente oggi non è e non esiste più (la gioia di vivere che "la grande bellezza" e il "il grande lavoro" le hanno consentito di avere e incarnare) ed è invece un Paese che nelle sue more quotidiane manifesta "la grande bellezza impotente" nella incapacità, ad esempio, di terminare perfino il cantiere degli Uffizi di Firenze (taccio per pietà di Pompei, Bronzi di Riace, ecc.)

A questo pericolosissimo misunderstanding etico/culturale, che prevede una specie di “affetto razziale buono" da parte di chi (vedi The Wolf of Wall Street) è più ricco, cattivo e ganzo verso chi (come gli italiani) è buono, divertente, ma inoffensivo, si assomma la acefala euforia dei media e degli intellettuali italioti, ormai impegnati solo a difendere il proprio culo e ad ossequiare schizzofrenicamente il vincitore di turno, in ogni campo e qualsiasi cosa faccia, senza più alcuna capacità di lettura, di critica o di proposta.

D’altra parte in un paese dove i maitre a penser sono oggi Fabio Fazio (il presentatore buono), Oscar Farinetti (che con Eataly ha "truccato" intelligentemente con vestiti metropolitani da word market le tagliatelle e i pomodori pachino), il simpatico Alessandro Baricco (grande ideatore di titoli per i suoi romanzi) , ecc. c’è poco da sperare in questo senso.

Come se usassero un binocolo all’incontrario, gli americani non possono amare e capire Checco Zalone che parla di un'Italia infinitamente più reale (mentre hanno capito e amato Sordi, De Sica, Fellini, anche loro locali fino alle soglie del dialetto, ma universalmente comprensibili come elementi di quella forte e dinamica cultura italiana) non perché Zalone sia inferiore intellettualmente, ma semplicemente perché racconta l’Italia di oggi, che non produce più niente di eccitante e contemporaneo e quindi di universalmente comprensibile.

Al contrario e come riprova, chi vive dall’interno la vita italiana ha riconosciuto ai film di Zalone un successo straordinario, leggendovi perfettamente la propria realtà.

Quindi l’attenzione del mondo dei premi internazionali ripiega con affetto snob, ignorante, forse un po’ peloso, ma certamente malinconico, su un’Italia da operetta che i nostri aedi locali da quattro soldi si affrettano a certificare come ancora esistente… ovviamente nella sua complessità sociologica ca va sans dire !!!.

Questi trombettieri del nulla fanno un buon servizio autoreferenziale solo a sé stessi, contribuendo al contrario ad aumentare le difficoltà di elaborare un’analisi vera e spietata di questo ormai piccolo Paese, unico modo per sperare di trovare un qualche rimedio efficace alla sua rapidissima decadenza.

Mi ha stupito al riguardo che il sempre aggraziato Severgnini, forse per i lunghi anni vissuti in America o per un rigurgito di pudore e raccapriccio, se ne sia (se pur tiepidamente) accorto non unendosi al coro.

Su un punto concordo con i trombettieri (pur avendo la chiara visione logica che così non è): sarebbe bello se Roma (e l’Italia) fosse, ancora e almeno, così come appare nel film. In realtà la vecchia signora non è in grado con la sua “Grande Bellezza” di sedurre ed eccitare intellettualmente o sensualmente più nessuno, al momento non ho (né credo ne avremo nel prossimo futuro) segnalazioni di migrazioni di artisti, scienziati e/o imprenditori verso i nostri lidi.

Tre le scelte possibili:

a) Truccarci al meglio per l'ultimo ballo, sperando di incrociare un ricco e miope milionario.

b) Estirpare lo spaventoso elefante politico burocratico che ci opprime e consentire, a chi sa, di fare cose nuove, creando economia e cultura.

c) Schiattare nel dubbio e nell’incapacità.

La mia risposta non ve la dico, ma scommetto che è uguale alla vostra...'ncoppa jamme jà ! funiculì funiculà !!!