STEFANIA CRAXI
07 feb 2014

A tre anni dallo scoppio delle Primavere arabe, il Mediterraneo è ancora in fiamme. Preoccupa la dichiarazione di guerra dell’estremismo islamico e le decine di vittime già provocate nelle opposte fazioni in Egitto, dove è drammatica la possibilità di una guerra civile. Preoccupa la complicata crisi Siriana e si palesa il sospetto che all’ombra delle “rivoluzioni” sia in corso un aspra lotta per la supremazia nel Mediterraneo da parte delle maggiori potenze regionali.

Se è troppo presto per trarre conclusioni, si possono però fare alcune considerazioni sulla regione euro-mediterranea il cui PIL aggregato secondo le stime 2006 della Banca Mondiale era circa 15.7 miliardi di dollari, superiore a quello dell’Asia e delle Americhe. Siamo così sicuri che tutti abbiano interesse allo sviluppo di quelle che potrebbero essere le quattro economie emergenti?
Più in generale io credo che l’area mediterranea sia stata investita dalla globalizzazione. Prima la globalizzazione economica, la crisi finanziaria internazionale, l’aumento dei costi dei cereali dovuta ai grandi incendi in Russia e alle speculazioni, ha fatto scoppiare il disagio sociale in quelle società che erano, si cresciute (mediamente del 5-6 % annuo) ma in modo molto disomogeneo. Poi la globalizzazione delle informazioni: tutti i ragazzi protagonisti delle rivoluzioni avevano potuto conoscere dai nuovi media gli stili di vita occidentali e di qui la richiesta di maggiore libertà, diritti civili, democrazia.

Ma la democrazia è un processo che non si impone e non si inventa dall’oggi al domani. Grande è stata la responsabilità dell’Occidente che ha per anni barattato stabilità per Democrazia appoggiando i cosiddetti dittatori senza mai pretendere e condizionare il sostegno occidentale all’avvio di un graduale processo di riforme politiche ed economiche che investissero quei paesi dove il potere e la ricchezza rimaneva in mano di piccole oligarchie.
Il tappo è saltato ed ha trovato l’occidente imprigionato; troppo frettolosamente ha abbandonato gli alleati di ieri non valutando che le primavere arabe, le piazze di giovani, per cui il nostro cuore batteva, erano troppo giovani, poco radicate per organizzarsi politicamente e così le transizioni sono finite nelle mani dei militari o degli islamisti.
In questo contesto complicato poi l’Europa ha frettolosamente abbandonato ogni programma che riguardasse il Mediterraneo, l’Africa del Nord e l’intero continente africano con il rischio già avanzato che venga colonizzato da Cina e Siria. Rinnegando se stessa, potremmo dire, perché l’interesse dell’Europa verso l’Africa nasce nel momento stesso della nascita della Comunità Economica Europea. I trattati di Roma del ’56 associavano infatti anche i protettorati e le ex colonie dei paesi membri con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico, sociale e culturale.

Durante gli anni della CEE tra i paesi mediterranei dell’Europa e i paesi del Nord Africa si sviluppa una fitta rete di accordi bilaterali che fa pensare al sorgere di una Comunità come potenza regionale del Mediterraneo. Questa situazione sfociò negli accordi di Lomè del 1975 firmati da 40 paesi e in un accentuato interesse europeo verso l’Africa come per trovare una via di fuga a una situazione europea bloccata dalla guerra fredda. Un documento di quegli anni della Commissione parla della politica mediterranea come di un atto di volontà politica per aiutare, lo sviluppo di una regione ritenuta “fondamentale per l’Europa”.
La crisi economica della metà degli anni settanta, l’ostilità degli Stati Uniti all’unità araba rallentò lo sviluppo dei rapporti fra Europa e Nord Africa e nemmeno la fine delle dittature in Spagna, Grecia e Portogallo e il loro ingresso nelle Comunità riuscì a ribaltare una situazione compromessa anche dal fatto che nei paesi emergenti si cominciarono a vedere seri concorrenti alle proprie produzioni agricole.

La situazione tornò a cambiare con le molte mutazioni in Europa con l’allargamento a 27 membri dell’Unione e nel nord Africa con la importante crescita delle loro economie. La conferenza di Barcellona del 1995 inaugurò il partenariato euro-mediterraneo che rappresentò il tentativo più organico e originale per una sistemazione totale dei rapporti fra i vari paesi. La firmarono i 15 paesi dell’allora Unione Europea e dodici partner mediterranei. L’accordo mirava a fare del Mediterraneo un’area di dialogo, di accordi, di scambi e di cooperazione diretta ad assicurare la pace, la libertà e la prosperità nel rispetto dei diritto internazionale.
Credo che si possa dire che con il programma di Barcellona finiscano le ambizioni dell’Europa se si esclude il tentativo del Presidente Sarkozy di riesumarne, aggiornandoli, spirito e contenuti con l’Unione per il Mediterraneo. Tra il 1995 e il 2000 l’Unione ha investito nell’area mediterranea un buon numero di miliardi ma complessivamente una somma di gran lunga inferiore alle somme destinate all’aiuto ai nuovi partners europei dell’ex est sovietico.

Contro lo sviluppo del programma di Barcellona ha giocato l’incertezza della struttura del partenariato, incapace di mitigare la diffidenza dei paesi arabi, ma soprattutto la congiuntura internazionale, con lo stallo dei negoziati di pace tra arabi e israeliani, la guerra in Iraq, l’attacco alle Torri gemelle, il ritorno in forza degli Stati Uniti nel Mediterraneo, tutti fattori negativi per lo sviluppo di scambi pacifici. Da parte loro i paesi europei, anziché unirsi per indurre i paesi arabi a politiche più consone sui diritti umani, sulle libertà democratiche, cioè su politiche che avrebbero avvicinato i paesi aderenti al processo di Barcellona, si sono divisi ognuno privilegiando i propri interessi.

In conclusione, Barcellona ha prodotto più conferenze e documenti cartacei che opere concrete. Continui rinvii delle date prefissate per il raggiungimento di questa o quella meta, gli egoismi nazionali che hanno finito per contagiare anche i paesi arabi, sempre più sfiducia sull’efficacia del partenariato promosso dai paesi europei, il peso sempre più forte del nord negli orientamenti dell’Unione Europea hanno portato al raffreddamento dei rapporti intermediterranei. Poi il rilancio dello spirito euro mediterraneo con il varo dell’Unione per il Mediterraneo con nuove strutture a garanzia di un vero partenariato delle decisioni e della gestione delle decisioni. Il nuovo entusiasmo e la doccia fredda della crisi economica mondiale.
In un saggio pubblicato nel libro “Il Mediterraneo attuale tra storia e politica” curato dal prof. Di Nolfo appaiono conclusioni tutte da condividere. “Se l’Europa vuole ancora dettare una parola nel governo del mondo deve riprendere la via del Mediterraneo. Se l’UE non può offrire a questi partners la carota dell’adesione, come ha fatto con i paesi dell’Europa orientale, può però offrire a coloro che lo desiderano forme più avanzate di integrazione economica, liberalizzazione degli scambi commerciali anche in settori finora più protetti come l’agricoltura, fino alla realizzazione di un’area di libero scambio come quella creata con la Turchia”.
Due parole sull’Italia. Il ruolo del bacino mediterraneo nella politica estera italiana è più di una semplice priorità: è parte inscindibile del nostro rapportarci col mondo che ci circonda. I nostri settemila chilometri di costa sono tutti nel Mediterraneo. La nostra storia e cultura, il nostro modo di fare commercio e trattare con gli altri, i nostri stessi usi e costumi sono in buona parte di matrice mediterranea, come l’influenza ricevuta dalla nostra lingua, tracce ancora visibili in molti dialetti. L’immagine costruita nei secoli dall’Italia sulla riva sud del Mediterraneo è tutta positiva. E’ una percezione di non invasività che ci accompagna nel mondo ed è un patrimonio da conservare. In tempi recenti, nella determinazione dei comportamenti verso il mondo arabo, spicca l’opera di due grandi personalità, Enrico Mattei e Bettino Craxi.

La nostra storia, ci lega profondamente al Mediterraneo e abbiamo l’interesse comune di fare del Mediterraneo un’area pacifica di scambi pacifici, politici, economici, di incontro tra culture diverse. La posta in gioco è chiara. Da un lato, un bacino mediterraneo prospero e aperto ai valori condivisibili dell’occidente, partner affidabile di un Europa che ha un forte bisogno di rilancio, dall’altro caos, estremismo, flussi migratori incontrollabili. Per questo è necessario raddoppiare gli sforzi per fare della Regione Euromediterranea quella che Francois Mitterand, definiva con un’espressione seducente, una comunità di destini.