RIVOLUZIONARE LE RAPPRESENTANZE
VITO BIANCO
27 gen 2014
RIVOLUZIONARE LE RAPPRESENTANZE

Siamo una comunità smarrita. I cittadini hanno perso fiducia nelle istituzioni, nei rappresentanti dei loro interessi e nei guardiani dei loro diritti. Chi compie il proprio dovere si sente irriso, il meritevole è frustrato e mortificato. L’improvvisazione della politica non trova argini e la voce del popolo non ha strumenti per essere ascoltata.  Non ha giornali, radio o televisioni.  Solo chi ha sviluppato un proficuo uso del web è riuscito a convogliare nelle piazze una protesta diffusa,  poi però non è riuscito ad incanalarla in un costruttivo progetto politico, davvero alternativo. Cosicché abbiamo timore del futuro, siamo spaventati per le prospettive che si aprono davanti ai nostri figli e dubitiamo di chi ci vuole rassicurare con reiterate promesse.  Siamo anche stanchi di veder logorare la dignità della nostra Nazione: comandanti di navi naufragate, soldati reclusi in terre ostili, marchi prestigiosi in mani straniere, rifiuti tossici  sotterrati nei campi, contratti pubblici non onorati, nove milioni di processi arretrati.

E quanto più ci sentiamo lontani dagli uomini delle Istituzioni, tanto più questi si allontanano. Troppi si chiudono a chiave nelle proprie fortezze, per difendere  effimere benemerenze. Giustificano i privilegi, forzano a proprio comodo i sacri principi del diritto, accumulano denaro per sottrarsi alle carestie che essi stessi provocano sperperando la ricchezza della Nazione.

Mancano i riferimenti. Mancano guide preparate ed esperte. Sono rari gli esempi di sobrietà. Imperversano i predicatori dell’impossibile, i rivoluzionari in doppio petto. E la politica diventa avanspettacolo, e vince chi è più ricco o chi grida ed offende più di altri.

Purtroppo non è solo una politica impotente ad offrire la rappresentazione amara della situazione. I corpi intermedi, le rappresentanze di interessi, si trovano oggi ad affrontare la stessa deriva. Nel tempo buio di Tangentopoli, con grande senso di responsabilità , Sindacati e Organizzazioni professionali avevano protetto il Paese dall’eccesso giustizialista. Avevano fatto barriera all’onda di disgusto che il Paese provava per i corrotti ed i corruttori. I leader sindacali di allora avevano gestito una fase critica per le stesse fondamenta dello stato democratico rinunciando, da una parte, alle rivendicazioni qualunquistiche e velleitarie, e, dall’altra, all’arroganza padronale. Fu una grande prova di maturità e di comunanza a tutela di superiori interessi , che consentì alla collettività nazionale di credere ancora in qualcosa e in qualcuno.

I meriti acquisiti in quegli anni non possono essere disconosciuti.  Ma la politica non tardò a riappropriarsi dei propri spazi e sommessamente  cominciò a coinvolgere le rappresentanze in un gioco spietato chiamato “sussidiarietà”.  In altre parole, si delegavano via via alle Associazioni compiti propri del sistema pubblico.  Compiti ovviamente remunerati con pubblico denaro.

Chi doveva tutelare gli interessi legittimi dei propri iscritti poteva così essere soggiogato in modo strisciante dalla logica dell’acquiescenza, della protesta di maniera, della difesa sindacale di facciata in modo da non disturbare troppo il manovratore. Il costruttivo pungolo sindacale sui Governi e la legittima azione di lobby si annacquavano per non perdere il bengodi dei patronati, dell’assistenza fiscale, ecc.  Altri Enti, altri moltiplicatori di costi e di burocrazia, con il primario obiettivo  di tutelare gli associati ma anche se stessi. Il sistema sindacale si ritrae come  narcotizzato e disorientato rispetto ai compiti storici; con conseguenti declinazioni patologiche. I portatori d’interessi, fiutato l’affare, si sono moltiplicati. 

Tutto ciò ha accentuato la spinta corporativa e mentre l’economia reclama integrazione, coesione, alleanze, i sindacati  perpetuano divisioni, frammentazioni, specializzazioni. Imperversano i Cobas e le frange autonome che non di rado tentano di avvalorare  la propria esistenza con violenza e spregio del diritto.

E’ ovvio come la politica abbia tutto l’interesse ad avere sindacati piccoli e divisi per attenuarne la pressione ed il potere.  Le grandi confederazioni sono, infatti, detentrici di un rilevante patrimonio che si chiama Rete-Organizzazione-Valori. Patrimonio che la politica ha in gran parte disperso e di cui la politica ha estremo bisogno in occasione delle scadenze elettorali. Ma la Rete costa e i contributi associativi non sempre bastano ad alimentarla.  Dunque, qualcuno potrebbe sospettare l’esistenza di un patto non scritto, per il quale la politica strizza l’occhio alle rappresentanze e queste alla politica?

Certo, ogni tanto il sindacato porta in piazza o nei teatri i suoi adepti  per  convogliarne e gestirne le rivendicazioni e per assumersene la paternità.  Ma quanto di quella protesta muscolare si traduce in concreto riscontro? Cosicché, anche la rappresentanza ora è ad un bivio cruciale: smontare il carrozzone e tornare al sindacato puramente associativo, oppure ridursi ad una agenzia di assistenza ? Offrire servizi moderni ed innovativi o restare aggrappati al sostegno pubblico? Il rischio è che gli associati potrebbero restare tali solo in funzione dei costi da sostenere, venendo meno le ragioni ideali dell’adesione.

E così, se non intervenissero forti cambiamenti nel mondo della rappresentanza, gli interrogativi , le perplessità e le insoddisfazioni che agitano la collettività nei confronti della politica potrebbero presto trasferirsi sul secondo livello. Per questo le grandi Organizzazioni debbono rapidamente provvedere ad una autoriforma “funzionale”. Non “larghe intese” ma un processo di aggregazione e di razionalizzazione frutto di matura consapevolezza degli scenari che si debbono affrontare e che sono in costante cambiamento.

L’Italia è una barca in un mare agitato e speculazioni di ogni tipo volteggiano per spingerci al naufragio. Remare nella stessa direzione aiuterebbe ad arrivare per tempo in acque più tranquille. Occorre un salto di qualità; sia per i sindacati dei lavoratori, sia per le associazioni d’impresa.

I primi sono chiamati a ragionare sulle reali prospettive del lavoro in Italia e sui grandi temi economici con una riflessione attenta a quanto accade negli altri Paesi ed ai loro istituti contrattuali. Abbandonare strategie esclusivamente rivendicative e statiche a vantaggio di una visione più elastica del tema lavoro.

E’ ormai assurdo pretendere di difendere le rigidità contrattuali a tutti i costi se queste frenano lo sviluppo delle imprese e minano la competitività. E’ assurdo difendere ruoli e impieghi privilegiati che, di fatto, inibiscono l’accesso a nuove figure d’impiego e l’indispensabile ricambio generazionale. Non ci si può concentrare solo sui diritti dimenticando i doveri. E’ autolesionismo difendere l’occupazione nelle aziende decotte e la ridondante burocrazia degli enti pubblici.

Le seconde sono chiamate ad un compito ancora più arduo. E’ vero che l’impresa in Italia non è amministrativamente favorita. L’imprenditore è  guardato con sospetto e fastidio. Troppe tasse, contratti onerosi, burocrazia opprimente. Tutto vero! Ma una autocritica si impone. Le rappresentanze d’impresa hanno anch’esse nel tempo assunto un ruolo più rivendicativo che costruttivo. Hanno spesso scaricato sui dipendenti  responsabilità proprie dell’imprenditore.

Quanti hanno reinvestito i profitti in azienda, quanti hanno avuto il coraggio di innovare, quanti hanno investito in formazione, quanti hanno messo in trasparenza i bilanci? Quanti introducono un contenuto “etico” al loro modo di gestire una impresa?

Allora, la vera rivoluzione per la crescita e lo sviluppo può cominciare dalle Rappresentanze, che debbono ritrovare la propria libertà dalla pressione della politica e dalla confusione con essa. Debbono denunciare i sorprusi ma anche espellere dal proprio ambito associati che non accettano regole, facinorosi e boicottatori, così come quelli che non rispettano gli adempimenti di legge, dando testimonianza di serietà e coerenza.

Soprattutto debbono formulare un progetto in termini espansivi . In tal senso il sistema delle rappresentanze può costruire una nuova stagione per l’economia italiana. Difendere interessi legittimi in modo legittimo. Aprire alle esperienze dei grandi Paesi, dove sindacato è prima di tutto responsabilità verso gli associati e verso la collettività. Combattere civilmente per conquistare obiettivi  legittimi , compatibili con il quadro socio economico, non solo è lecito ma favorisce la dialettica in un Paese maturo e stimola la corretta competizione.

Certo, si richiede una grande visione di prospettiva. Un sindacato forte è un pilastro e un presidio per la democrazia. Così come un sindacato ottuso e corporativo è un freno allo sviluppo e un pericolo strisciante per la società perché ne livella verso il basso le istanze propulsive.

In primo luogo, il sindacato deve promuovere la meritocrazia e non soffocarla, come fosse un rischio per i meno meritevoli.  Il giudizio sul merito non attenta alla “sovranità” sindacale sugli associati ma ne esalta il ruolo dinamico e moderno.

Nondimeno si chiede uno sforzo di lungimiranza alle rappresentanze datoriali , ricordando che la prima ricchezza di una impresa risiede nei suoi dipendenti e nei suoi collaboratori. La fabbrica, piccola o grande, il negozio, l’azienda agricola, il laboratorio artigiano, costituiscono delle comunità nelle quali si deve concorrere alla soddisfazione di tutti. Licenziare un bravo operaio può essere una necessità  ma è prima di tutto una sconfitta.

Cosicché oggi la rappresentanza datoriale deve rifuggire dall’echeggiare le lamentazioni in un crescendo pietistico e porsi come primo persecutore delle rivendicazioni improponibili e illusorie. Chiedere mille per avere cento è vetero sindacalismo. Argomentare le istanze e pretendere il possibile è vero sindacalismo.

Da un lato e dall’altro però occorre assecondare il progresso della società interpretandone per tempo i bisogni.  Occorre denunciare con forza i difetti e le carenze, le omissioni e le resistenze al cambiamento. Occorre fare autocritica sui “gravi” errori commessi e sulle battaglie che hanno accentuato i costi sociali.  Non si può continuare a difendere tutto e tutti.

Oggi una Rappresentanza davvero libera può e deve affrancarsi dalle tentazioni consociative e recidere i lacci con chi non compie scelte doverose e con chi si rassegna ad accettare l’oblio ed il declino, sostenendo e reclamando decisioni coraggiose, anche impopolari, ma produttive di un rilancio nazionale d’orgoglio, di dignità, di responsabilità esemplare.


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