CONVEGNO CIHEAM / 2 - PRIMA LO STOMACO O IL SERBATOIO?
PAOLO DE CASTRO
07 feb 2014
CONVEGNO CIHEAM / 2 - PRIMA LO STOMACO O IL SERBATOIO?

Presidente della Commissione Agricoltura al Parlamento Europeo

Negli ultimi anni la produzione agricola è tornata al centro dell'agenda politica ed economica internazionale. Con una differenza sostanziale rispetto al passato. Già protagonista della prima rivoluzione economica dell'umanità e incubatrice della rivoluzione industriale, oggi all'agricoltura si chiede di dare sempre di più. La domanda ormai non è solo relativa alla tradizionale missione dell'approvvigionamento alimentare – per una popolazione mondiale in aumento che nel 2050 potrebbe superare la cifra record di 9 miliardi di individui – ma si estende alla produzione energetica e di materiali. Questo ha anche scatenato, giustamente, un dibattito sulle priorità, che in altre sedi ho sintetizzato così: viene prima lo stomaco o il serbatoio? Un dibattito di importanza cruciale per il Mediterraneo e per l'Italia. Il nostro paese può svolgere in questo ambito un ruolo strategico. Sia in termini strettamente contingenti, di sviluppo di biocarburanti di prima o seconda generazione o di bioenergie, che in senso lato: il settore agroalimentare è la risorsa energetica, che il nostro paese e tutto il bacino del Mediterraneo possono utilizzare per far ripartire l'economia dell'area guardando al futuro.

1. Le bio-energia.
Per quanto riguarda i biocarburanti, mentre scrivo il Parlamento europeo è a pochi giorni da un voto decisivo per aggiornare il quadro legislativo dell'UE verso le politiche di sostenibilità senza compromettere gli investimenti già fatti su un settore che, fino a pochi anni fa, sembravano LA soluzione al grande problema del cambiamento climatico, grazie alla loro capacità di ridurre le emissioni complessive di gas serra nell'atmosfera, sostituendo benzina e diesel. Successivamente sono stati definiti addirittura un «crimine contro l’umanità», in quanto ritenuti i principali responsabili della corsa alla terra. Negli ultimi tempi, nuovi indicatori ecologici hanno rivelato che anche sotto il profilo dell’impatto sulle emissioni i biofuel di prima generazione in alcuni casi sarebbero un rimedio peggiore del malanno. Così l’argomento, complesso e di grande attualità, è diventato oggetto di un dibattito che spesso trascende il rigore scientifico per assumere connotati ideologici.
Innanzitutto, va specificato che l'utilizzo dei biocarburanti nei motori dei mezzi di trasporto non è affatto una novità degli ultimi decenni. La stessa Ford Model T, la prima vettura prodotta in catena di montaggio, poteva funzionare – cosa che la maggior parte delle auto di oggi non può fare – con una miscela di etanolo e benzina in proporzioni variabili. Poi arrivò l’era del petrolio a buon mercato e disponibile in enormi quantità. I carburanti da biomassa furono accantonati, dato che ne esisteva uno in natura senza rivali per potere energetico, trasportabilità, possibilità di stoccaggio. Nulla cambiò fino agli anni settanta, quando, in seguito alla prima crisi mondiale di approvvigionamento alimentare, il mondo si accorse bruscamente che il petrolio poteva anche non essere sempre disponibile o essere molto caro.
Fu così che, dopo la crisi petrolifera del 1973, iniziarono a svilupparsi i primi programmi statali di produzione di carburanti alternativi, nella fattispecie il bioetanolo da canna da zucchero in Brasile e il bioetanolo da mais negli Stati Uniti, materie prime agricole di cui i due paesi erano e sono tuttora leader della produzione mondiale. Nel resto del mondo si comincia a parlare di biocarburanti solo dagli anni novanta. Nell’Unione europea, in particolare, nel 2003 è stato stabilito per i paesi membri un obiettivo di miscelazione non vincolante del 5,75% sul totale dei carburanti fossili, oltre alla possibilità di defiscalizzare i biofuel. Nello stesso anno, con la riforma della politica agricola comunitaria fu inoltre introdotto un aiuto alla produzione per le colture energetiche. Nel 2009 con la Direttiva europea per la strategia energetica dell’Unione è stata alzata l’asticella: l’obiettivo di miscelazione viene fissato al 10% nel 2020 e diventa vincolante. Per effetto di tali misure si è sviluppata soprattutto una filiera di produzione di biodiesel da colza e, in misura minore, di bioetanolo da grano, da mais e da barbabietola. Anche in Cina e India i biocarburanti sono già da alcuni anni oggetto di programmi di sostegno.
Ovunque però è lo stesso: le politiche d’incentivazione hanno letteralmente "creato" le filiere dei biocarburanti. Anche in un periodo di prezzi del petrolio molto elevati, la competitività dei biocarburanti senza incentivi non è ancora realtà, eccezion fatta forse per il bioetanolo brasiliano. Le politiche a sostegno della produzione di biofuel stanno influenzando il mercato alimentare sotto due aspetti principali: il cambio di destinazione d’uso del suolo, dalla produzione di cibo a quella di energia, e le quantità di derrate per uso alimentare che vengono progressivamente sottratte allo scambio sui mercati. Su quanto questo abbia realmente sostenuto la tendenza dell’aumento dei prezzi non vi sono evidenze chiare, ma è indiscutibile che il biofuel rappresenta una fonte aggiuntiva di domanda per un mercato già in penuria di commodities strategiche come zucchero e cereali.
Ecco perché l'UE sta cercando di modificare la propria legislazione in materia. La Commissione ha presentato proposte sui biocarburanti, mentre sono attese nelle prossime settimane i "criteri di sostenibilità" per le biomasse solide e gassose. Per quanto riguarda i biofuel, l'esecutivo comunitario intende spostare l'asse delle agevolazioni e degli incentivi dai biocarburanti di prima a quelli di seconda generazione. A differenziarli è il materiale di partenza: colture alimentari o che ad esse sottraggono superfici coltivabili nel primo caso, scarti della produzione agricola (residui colturali come la paglia e le stoppie dei cereali, i materiali legnosi ricavati dalla manutenzione dei boschi, gli scarti di alcune lavorazioni industriali come le polpe delle bietole, i gusci della frutta secca, le stesse componenti organiche dei rifiuti soldi urbani) nel secondo.
Certo, ci sono investimenti fatti a partire dal quadro incentivante di una legislazione tutto sommato molto recente e di questi investimenti, che creano occupazione e ricchezza, va tenuto conto, soprattutto nel momento attuale. Quello delle bioenergie è tuttavia un settore chiave, in cui ricerca e innovazione sono d'importanza fondamentale per coniugare sostenibilità economica e ambientale. E l'Italia può svolgervi un ruolo chiave. Il nostro paese è all'avanguardia nella produzione dei biofuel di prima ma anche di seconda generazione. Se il problema tecnologico più generale è che il passaggio dalla prima alla seconda generazione sta avvenendo in modo più lento di quel che ci si sarebbe aspettato, è italiana l'unica azienda al mondo che è riuscita a rendere economicamente profittevole la produzione di biofuel di seconda generazione, sebbene ancora con alcuni vincoli, come il fatto che il prezzo delle materie prime sia davvero basso.

2. L'energia di un comparto
Anche parlando in senso lato, dell'agroalimentare italiana come risorsa, il nostro paese può fare da apripista nel Mediterraneo per uno sviluppo sostenibile basato sull'agroalimentare. Le energie del comparto agricolo non cominciano dall'economia, ma dall'entusiasmo degli agricoltori. Oggi quello dell'agricoltore è un mestiere sempre più complicato, poco o nulla a che vedere con la tradizione della produzione agricola di povertà e sussistenza che ha caratterizzato per secoli molte aree del nostro paese. Il mercato è diventato globale, i concorrenti sono agguerriti e agli agricoltori è richiesto un lavoro straordinario: essere agronomi, esperti di ecosistemi, meteorologi, economisti, ma anche veterinari e un po' chimici. La gestione sostenibile delle innovazioni tecniche che hanno portato ad aumentare la produttività richiede anche un capitale di conoscenze e competenze che è raro trovare in un singolo imprenditore.
Agli agricoltori si affianca la nostra industria alimentare, un "saper fare" che è combinazione vincente tra la nostra storia e i nostri territori, cioè la tradizione, e la capacità di innovare e aggiornarsi per portare la qualità su scala industriale.
Questi due comparti sono sollecitati e spinti verso un continuo incremento qualitativo da una platea di consumatori quanto mai esigenti. Il dovere affermarsi in un mercato intriso di una cultura secolare del cibo e dell'alimentazione è una spinta competitiva davvero non da poco.
La dieta Mediterranea è inoltre famosa in tutto il mondo, riconosciuta dall'UNESCO come patrimonio immateriale dell'umanità, per i suoi ingredienti sani. E può sfruttare un certo vantaggio competitivo sulle produzioni di altri paesi, il vantaggio del made in Italy o, se si vuole, dello stile italiano.
L'agroalimentare ha "i numeri". Vale quasi 270 miliardi di euro (17% del Pil), una ricchezza prodotta per poco meno di un terzo (il 30%) dal Mezzogiorno, dove si concentra il 45% delle imprese attive del settore, il 43% degli occupati, e dove il valore dell’export (5,7 miliardi) rappresenta il 30% del dato nazionale. Gli ultimi dati ISTAT sulla diffusione delle produzioni biologiche nel Sud Italia danno in questa parte della penisola il "bio" è un comparto in crescita nei consumi e nella produzione nonostante la crisi, con un giro d’affari stimato di circa 3 miliardi di euro in Italia, una dimensione media aziendale di 18 ettari (contro i 7,9 a livello nazionale), un alto tasso di innovazione organizzativa e competenza tecnica. Ebbene, ci dice l'Istat, più di sei aziende agricole su dieci (62,5%) che utilizzano il metodo di coltivazione biologico in Italia sono attive nel Sud e nelle Isole.
L’industria alimentare nazionale nel 2012 ha incrementato le esportazioni (26,1 miliardi) del 6,7% rispetto al 2011. I partner commerciali più importanti dell’Ue sono paesi come Germania e Francia. Altro fattore importante è la qualità. L'Italia infatti è al primo posto tra i Paesi Ue per numero di iscrizioni al registro europeo delle Dop, Igp e Stg e il fatturato di 2 miliardi nel 2011 registra una crescita del 6,9% rispetto allo stesso anno.

3. La produttività delle risorse
I numeri raccontano di una realtà importantissima della nostra economia nazionale e regionale. Ma anche di un'energia in qualche modo ancora inespressa e in potenza. La propensione all'export delle nostre aziende dell'agroalimentare (espressa dal rapporto tra export e fatturato) si attesta al 20,4% e ha ampi margini di progresso. In Europa siamo terzi, dopo Germania (28,3%) e Francia (24,7%). Comunque si tratta del dato più significativo del Mediterraneo, cugini d'Oltralpe esclusi.
In Italia, la recessione economica prolungata impone alle imprese dell'alimentare una maggior internazionalizzazione. Fortunatamente, le opportunità all’estero non sembrano mancare, anche se appaiono concentrate in mercati geograficamente più distanti, cioè extraeuropei. La ridotta dimensione media delle imprese, la presenza di criticità strutturali nel “Sistema Paese” nonché di rilevanti ostacoli all’ingresso nei mercati esteri rendono necessaria una maggior attenzione istituzionale verso il settore una politica economica “ritagliata” su misura per l’agroalimentare.
Questo tipo di attenzione potrebbe essere la scintilla per utilizzare al massimo potenziale le energie dell'agroalimentare italiano perché si proponga davvero come forza propulsiva di tutto il bacino del Mediterraneo.

“L'agroalimentare vale il 17% del Pil, prodotto per il 30% dal Mezzogiorno, dove è il 45% delle imprese del settore, il 43% degli occupati, e il valore dell’export (5,7 miliardi) rappresenta il 30% del dato nazionale”.