VINCERE IL PESSIMISMO
GIANNI BONINI
29 gen 2014
VINCERE IL PESSIMISMO

La ripresa non ce la regala nessuno, lo abbiamo ripetuto ossessivamente ed ora ogni giorno che passa il coro aumenta e ci troviamo in una compagnia sempre più autorevole. Potremmo dire meglio tardi che mai, noi vecchi riformisti craxiani accusati a ragione di nostalgia, ma purtroppo la situazione non consente esercizi gratuiti di vanità perchè è veramente grave. E non si vede come venirne a capo perchè anche il governo Letta, accolto con tutta l'indulgenza possibile, unto persino da Briatore con la battuta " se lo vogliono i mercati...", si è rivelato totalmente inetto, incapace di dare il minimo segnale di svolta ed ormai sembra vivacchiare tra una De Girolamo e un Mastrapasqua in attesa di contrattare una buonuscita in chiave europea. Era stato buon profeta disarmato Enrico Cisnetto qualche mese fa su Il Foglio a non lasciare scampo: il debito che cresce di un miliardo al giorno, le sofferenze bancarie che registrano un +22,4% rispetto all'anno scorso, prestiti bancari e mutui ai minimi negli ultimi dieci anni, pil a -1,9%, il Paese immerso nel rancore (De Rita), con l'unica fievole speranza di un 20% di italiani che vuole lottare per tornare a essere vincenti.  

 

Guido Salerno Aletta su Milano Finanza rincarava la dose individuando finalmente con coraggio e lucidità le cause profonde del nostro declino, il peccato originale: Maastricht. Quel trattato, "ratificato in fretta e furia da un Parlamento italiano sotto shock, per le inchieste giudiziarie e la svalutazione della lira", partorì "i due parametri che avrebbero dovuto garantire la stabilità delle finanze pubbliche: il divieto di deficit pubblici eccessivi con la soglia fissata al 3% del pil; il debito pubblico da ricondurre al 60%. È stato un fiasco completo, e come tale si preannunciano gli obiettivi del Fiscal Compact in tema di riduzione del debito pubblico del 3,5% l'anno, a partire dal 2014". 

 

È stato allora che nel nostro piccolo, incoraggiati dalla pubblicazione del saggio di Giuseppe Guarino, abbiamo deciso di lanciare il manifesto-appello Ristabilire la legalità dei Trattati UE sottoscritto con entusiasmo da lettori e amici di IF, guardato da altri invece con scetticismo, quelli che pensano che una nuova legge elettorale sia la lampada di Aladino. Che avevamo visto giusto lo testimoniano ormai le prese di posizione sempre più forti anche a livello comunitario, sia pure sospette di opportunismo elettorale a causa del vento contro questa Europa tutto finanza e dirigismo, che tira non solo dalle parti di Marine Le Pen. È il caso della risoluzione della Commissione economica di Strasburgo che ha preparato una risoluzione in cui mette sotto accusa la troika, accusando Bce, Fmi e Commissione Ue, di agire "senza adeguato fondamento giuridico" e di aver fatto aumentare con i piani di austerità il debito, la disoccupazione e la disuguaglianza.  Fatti incontrovertibili se è vero che Stati Uniti e Cina stanno uscendo dalla crisi, mentre l'Europa è ferma, allargando così il divario tra le economie, una deriva che finirà per risolversi inevitabilmente in un autogol per la Germania: la liquidità bancaria e l'enorme attivo commerciale tedeschi in presenza di un saldo negativo degli altri dell'Eurozona, non possono continuare, oltre che vendere la Merkel deve pure comprare. 

 

Quello che si respira intanto é un clima di guerra politico-commerciale in cui noi, dopo i fasti del G7 bisogna dirlo, degli anni ottanta, siamo tornati a giocare un ruolo residuale se non talvolta di ostaggio, come non di rado ci é successo, sicuramente in modo tragico alla vigilia della sciagurata entrata nel secondo conflitto mondiale. Il capolavoro di Franco Bandini Tecnica della Sconfitta recentemente rieditato proprio da noi per IF, lo documenta drammaticamente. Ma rassicuratevi, non vogliamo fare paragoni improponibili, l'Europa oggi non rischia neanche lontanamente qualcosa di simile, semmai il provincialismo politico e i caratteri di borghesia compradora - la definizione terzomondista é stata recentemente utilizzata da Giulio Sapelli - della nostra classe dirigente sono purtroppo un tratto comune della storia patria. 

 

E la barca non va, l'Italia non sembra risollevarsi, anzi. Le stime del Fondo monetario internazionale per il 2014 limano al ribasso le previsioni di crescita, un risicato +0,6%, dopo la flessione dell'1,8% del 2013 e il -2,5% del 2012,. C'è comunque da augurarsi che siano reali anche se Regno Unito specialmente, Germania e Francia vengono accreditati di performance nettamente migliori.

 

Insomma il Paese perde competitività a "rotta di collo", si dice a Firenze, mentre la globalizzazione ridisegna gerarchie ed assetti, proprio quando o forse sarebbe meglio dire, guarda caso proprio quando lo stesso Mediterraneo, di cui siamo l'asse mediano, per citare Braudel, è scosso da un terremoto di inaudita forza - le cosiddette primavere arabe sono costate 800 miliardi di dollari ed un pil in caduta del 35% ai paesi investiti - che chiude il ciclo storico dei socialismi nazionali di stampo nasseriano ed apre scenari in cui il nostro peso è ormai decrescente. Basti pensare alla Libia in cui la guerra tribale indebolisce un partner energetico fondamentale e ci lascia scoperta la sponda africana. 

 

Eppure una forte presenza nel Mediterraneo è la prima issue della nostra politica estera. Siamo leader commerciali con molti paesi del bacino in cui per la precisione transita il 19% del traffico merci mondiale - Suez e Gibilterra non sono ancora andati in soffitta e Tangeri sta diventando un competitor formidabile per i nostri porti - il nostro traffico ha superato nel 2013 i 58 miliardi di euro, di cui 15 prodotti nel Mezzogiorno, più di 2000 imprese a capitale italiano operano solo tra Turchia, Tunisia e Marocco - dati SRM - sono numeri importanti che non bastano tuttavia a garantirci dalla  concorrenza degli USA e della Cina e fin qui passi, ma anche della solita Germania che ha piani di investimento più ambiziosi di noi. Evidentemente il Baltico ed i formidabili rapporti commerciali con Putin a partire dall'energia, alla faccia degli oligarchi e dei cosiddetti diritti umani, gas non olet, non bastano a sfamare il Leviatano teutonico che affacciandosi prepotentemente sul Mediterraneo in barba a qualsiasi politica coordinata europea, ammesso e non concesso che esista, sembra quasi voler inseguire quella politica guglielmina che, pensionato Bismarck, era destinata, come rileva Franco Cardini, "a turbare i sonni tranquilli della vecchia signora degli oceani", Sua Maestà Britannica e ad essere una delle cause scatenanti la Grande Guerra. Oggi incassata l'unificazione, ringraziato Mitterand e la Tangentopoli italiana, ha alzato via via il suo strapotere economico a cui teneva testa nel continente soltanto la nostra piccola e media industria, si è ben coperta ad est,  ha imposto alla Comunità europea il suo dirigismo economico-finanziario, un impasto di austerità e di direttive funzionali al suo sistema industriale come quella sulle energie rinnovabili e con la Grosse Koalition ha ridotto in schiavitù l'Europa greco-latina. 

 

Non basta la saggezza della Bonino che si è mossa con grande lungimiranza nell'infuocato Medioriente dopo le vanagloriose fughe in avanti del Barone Terzi di Sant'Agata, per ricollocare l'Italia come interlocutore forte nel quadrante euroasiatico, anche perché la velocità delle transazioni finanziarie e commerciali non è compatibile con la lentezza e l'instabilità del nostro sistema politico. Così mentre negli Stati Uniti si decideva l'equilibrio o lo squilibrio controllato, se ci piace di più, del Pianeta, con la Cina terrorizzata di veder tramutati i titoli del debito pubblico americano in carta straccia, il bravo giornalista collettivo nostrale ci ha trastullato con i gossip delle larghe intese che, a differenza di quelle tedesche, producono soltanto baruffe di bottega e un'ulteriore proliferazione di quel cancro che si mangia il nostro Welfare, la burocrazia nelle sue diverse articolazioni di casta. Tanto è vero che a Davos ad ascoltare Larry Summers, già ministro americano del Tesoro, che rilanciava il keinesismo, non c'era Letta, impegnato non si sa bene in che cosa, ma il soldato Saccomanni che non si è certo distinto per ingegno in questa triste esperienza di governo.

 

Ora, pur apprezzando l'irruenza creativa di Matteo Renzi - ma lasciamo in pace Bettino per cortesia - che travolge l'ultimo antistorico retaggio della guerra fredda, il PCI-PDS-PD, utilizzato abilmente dall'asse conservatore Scalfari-De Benedetti come partito radicale di massa in funzione anti Berlusconi, non pensiamo che questa basti a rovesciare il trend.

Occorre una rinnovata capacità di leggere il nuovo scenario globale in cui si incastra la nostra crisi che è economica e di civiltà. Sul palcoscenico della Storia sono arrivati nuovi attori, popoli che giustamente ambiscono ai nostri standard di vita, miliardi di persone che fino a ieri etichettavamo come terzo e quarto mondo e che con alterna fortuna, con sistemi di cui ogni tanto a comando delle ong onusiane proviamo orrore, non ci stanno più a servire docilmente William Walker, il Marlon Brando di Queimada. Vogliono mangiare, vestire, divertirsi come noi e siamo stati noi ad inculcargli questi bisogni per vendere le nostre merci e per venderle abbiamo travolto molto spesso e senza rimorsi antichi costumi e dignità. 

 

Il libro di Paolo De Castro, Corsa alla terra, è illuminante sul passaggio che rischiamo in termini agroalimentari dall'epoca dell'abbondanza a quella della scarsità. Ora in questa rivoluzione geopolitica che vede gli stessi Stati Uniti annaspare alla ricerca di una nuova strategia imperiale, visti anche i risultati dello smart power di Obama di cui la Siria ha rappresentato una cartina di tornasole dai risultati deludenti, noi ci giochiamo la stessa integrità nazionale. La Storia è tutt'altro che finita e l'Italia è chiamata a raccogliere le forze migliori per esercitare un ruolo su uno scenario globale mai così confuso e multipolare. Semmai imparando dalla nostra sfortunata storia unitaria a non ripetere gli stessi errori figli del provincialismo, da Crispi a Mussolini, senza contare che la stessa felice esperienza dell'Italia di Fanfani al netto delle illusioni profetiche di La Pira, di Moro, di Andreotti e di Craxi, si svolgeva comunque al riparo del Muro di Berlino. 

 

Il Colonnello Nathan R. Jessep, magnifico Jack Nicholson in Codice d'onore, ha più di una ragione quando si rivolge al Tenente harvardiano Daniel Kaffee/Tom Cruise: "Tu non puoi reggere la verità. Figliolo, viviamo in un mondo pieno di muri e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile." E qui il discorso si farebbe troppo lungo. Diciamo allora che dobbiamo riappropriarci di un ruolo da potenza regionale, Europa e Mediterraneo, che si è indebolito in questi vent'anni, presidiando a livello internazionale il valore aggiunto che alle nostre merci è ancora conferito in tremila anni da una civiltà irraggiungibile. Il Made in Italy appunto, ma non con le chiacchiere puerili della stragrande maggioranza delle amministrazioni pubbliche e delle Regioni, ma con i fatti dei tanti più o meno grandi imprenditori che, come Marco Polo, da soli si avventurano sui mercati più lontani. Ce ne sono ancora tanti, sono una delle componenti migliori di quel 20% a cui si attaccava De Rita e per lo più e questo è un altro dramma del degrado burocratico nazionale, non siedono sugli scranni delle Associazioni industriali. Ma per sviluppare il Made in Italy, che non è riducibile banalmente ai mercati di nicchia alla slow food, occorre trovare intelligenze e risorse per abbattere il costo del lavoro, chiamatelo pure cuneo fiscale, alzare i salari, promuovere una rete globale di "fondachi" e di "banchi", sponsorizzare tenacemente l'imprinting nazionale che trova ancora un forte apprezzamento all'estero. Un Keinesismo civile che parte dalla rifondazione dello Stato. Ecco allora il nodo ed il salto da fare e cioè la drastica riduzione del costo di una macchina pubblica inefficiente che rappresenta il vero dazio insopportabile da pagare, il record di tassazione nell'area UE, oltre ormai il 53%. E non chiamiamolo bizantino, per favore, che i romani d'Oriente ressero mille anni di imperium con il loro apparato burocratico-fiscale, sotto le ondate successive di arabi, mongoli e turchi. 

 

Dunque via le Province subito, il federalismo è fallito, il Veneto deve il suo benessere alla vecchia PiRuBi - Piccoli, Rumor, Bisaglia - altro che Zaia. Bisogna ridare alla Politica il primato sulla superburocrazia, agli eletti rispetto ai nominati ed è inutile che Clini ci racconti la storiella delle conferenze dei servizi e dei decreti di attuazione, la conosciamo bene, è mancata la forza ed il coraggio per spazzare via questo parassitismo burocratico travestito da ambientalismo, anzi molto spesso ci si è riparati dietro per paura e demagogia a danno della crescita. Oggi siamo alla resa dei conti e ci vogliono condottieri coraggiosi, non politici travicelli prigionieri della loro ombra o tecnocrati preoccupati soltanto delle loro posizioni professionali, una nuova classe dirigente attrezzata culturalmente e non semplice spin off delle agenzie di rating anglosassoni, oppure yesmen del mondo finanziario incapaci di leggere la complessità sociale. 

Nel tempo delle multitudini - sul piano dell'analisi Toni Negri è al solito avanti - sempre meno dei popoli, occorre un nuovo impianto costituzionale, una Repubblica Presidenziale che attribuisca all'esecutivo una forte autorità ed al Parlamento riqualificato un potere legislativo libero dai ricatti consociativi. La più bella Costituzione del mondo del furbo Robertino e dei professorini democratici - ma come si fa ad assumerne ancora altri!? - fa acqua da tutte le parti ed è normale; nasceva dalla disastrosa sconfitta bellica e da Yalta, era il terreno di cultura del genio politico della DC e di Togliatti, era già vetusta negli anni 80 e solo la straordinaria capacità di Bettino Craxi nel valorizzare la vitalità economica italiana e gli spazi di manovra concessi dalla fase finale della guerra fredda, ha permesso di supplire a questo iato tra società e istituzioni. Poi, come si è visto, sotto i colpi della globalizzazione finanziaria, la matrice di Tangentopoli e divenuti periferia geopolitica, la corsa al declino è diventata inarrestabile.

 

Purtroppo nella Legge di Stabilità di questo "spirito del tempo" non si è tenuto conto. La Spending Review dopo Bondi è stata consegnata nelle mani del Mago Cottarelli ex Fmi, mentre doveva essere la bandiera del governo delle larghe intese. Insomma Letta non ha  saputo cogliere la Fortuna che Napolitano instancabilmente gli ha offerto, non ha visto neanche l'eccezionalità di un centrodestra decapitato che non aveva nessuna voglia di andare alle elezioni e che, a parte gli strilli di circostanza, si è tenuto ben stretto questo equilibrio parlamentare fino all'arrivo di Renzi. Vedremo nei prossimi mesi l'evolversi di questa novità, ci auguriamo sinceramente che riesca a sorprenderci e a vincere il nostro pessimismo, a superare gli interessi di casta che ci tengono nella palude, che bloccano quelle riforme indispensabili che recitiamo sempre più stancamente a memoria: flessibilità del mercato del lavoro, semplificazione burocratica ed istituzionale, nuova forza al potere esecutivo locale e centrale,  riforma radicale della magistratura, abbattimento delle tasse e del cuneo fiscale, grandi opere pubbliche. 

 

Emerge la questione vera dell'Italia attuale, la formazione di una classe dirigente, donne e uomini ottimisti, capace di interpretare il mondo dopo il Muro di Berlino, di guidare il Paese con coraggio e coscienza della nostra posizione ridimensionata, di fare del multipolarismo lo strumento di una politica estera meno roboante ma più concreta e meno sbilanciata di quella che abbiamo avuto negli ultimi venti anni. Il tempo si è fatto stretto.