THE DAY AFTER B
LEONARDO TOZZI
15 set 2013
 THE DAY AFTER B

Resuscitare questa volta sembra improbabile. Anche se a Berlusconi è già riuscito più volte a dispetto di tanti che lo davano per finito. Ma la sua stagione, complice lo stringersi delle vicende giudiziarie e parlamentari, e il fattore anagrafico, è probabilmente al capitolo finale. Se sarà un happy end meglio, non siamo mai stati iscritti al partito degli odiatori e abbiamo invece saputo vedere i vari meriti che B. ha avuto sulla scena politica italiana a partire dalla sua discesa in campo e anche prima.

Parallelamente l’irresistibile e singolare ascesa di Matteo Renzi segna un contraltare significativo a questa fase e suggerisce che dopo B. l’Italia politica non sarà più la stessa.
Non lo sarà il cosiddetto centro destra che in realtà è ed è stato solo il partito di B.; niente a che fare con – che so: il Partito Repubblicano Americano o i Conservatori inglesi o il PPEuropeo nelle sue diverse declinazioni nazionali, per dire…; solo un frutto geniale e italiano della straordinaria anomalia figlia della strage politica di Tangentopoli.

Non lo sarà il cosiddetto centro sinistra che con l’affermarsi della leadership di Renzi viene risucchiato in un vortice di energia e spettacolarità dove tuttavia resta largamente indecifrabile il contenuto politico e culturale, e a nostro avviso ciò non è per niente casuale. Qui siamo di fronte ad una sostanziale ambivalenza e indifferenza per ogni autentica scelta sui terreni che contano – la giustizia, la politica internazionale, l’economia, il lavoro, il fisco… Così il patrimonio storico della sinistra italiana si troverà a breve dentro una storia che non conosce, verso un esito che non comprende. I democristiani – ha ironizzato Giuliano Ferrara – si sono mangiati i Comunisti! Unica consolazione, forse – deve essere questo il cinico ragionamento finale della generazione erede del – lasciatemelo dire – glorioso! Partito Comunista - la speranza di salvare poltrone, municipalizzate e via dicendo per portare alla tomba se stessi e una storia politica importante, rinunciando al futuro.

In questo gramo scenario i ceti produttivi del paese, sfiancati dal peso abnorme del fisco, oppressi da un sistema burocratico tanto asfissiante quanto inefficiente, non possono tuttavia rinunciare al futuro, al cambiamento reale. Si tratta di un immenso “Partito… IVA” straordinariamente diffuso, dove risiedono le energie che possono dare all’Italia una nuova speranza. Questo mondo sa alcune cose dentro di se, anche se stenta a ritrovarle con parole chiare sui giornaloni, ad ascoltarle nei talk show. Il peso della tassazione sui redditi in Italia ha raggiunto ormai livelli insopportabili, peraltro in una fase di crisi prolungata come l’attuale. I profitti tassabili sono sempre più evanescenti e infatti non a caso la voracità fiscale sta virando verso i “patrimoni”, sia mobiliari che immobiliari. La cosiddetta tassa sulla ricchezza, che suona bene nei confronti del popolo, evocando di colpire i grandi patrimoni, in realtà finisce sempre per spolpare il risparmio delle “formiche”, senza considerare che lo stesso risparmio affidato nel tempo dalle medesime a impieghi finanziari è stato a sua volta lasciato alla mercè degli speculatori. Grecia e Cipro docet.

La crisi fiscale dello stato per la verità non è recente. Tutt’altro. Nel 1977 Einaudi pubblicava un denso saggio del 1973 dell’economista americano James O’Connor. La Crisi Fiscale dello Stato, appunto. Impressionante immergersi nella lettura del libro, sembra scritto oggi. “Uno stato vittima di apprendisti stregoni che l’hanno indotto a percorrere con leggerezza la strada dell’espansione della spesa pubblica, si trova di fronte ad una situazione di dissesto: sia per la reazione dei contribuenti divenuti sempre più intolleranti all’aggravarsi degli oneri fiscali; sia per l’evidente incapacità di assicurare l’adeguatezza e l’efficienza dei servizi pubblici che potrebbero giustificare l’aumento della Spesa…” e sono solo le prime righe, impressionanti le analogie in tutte le pagine seguenti.
O’Connor era un marxista e il suo ragionamento definiva l’espandersi dello stato assistenziale non come deformazione del capitalismo maturo, ma altresì come sua immagine speculare: “in realtà la crescita del settore statale è indispensabile alla crescita dell’industria privata, ne è causa ed effetto, si pensi solo alle spese militari (warfare-welfare)”. Il celebre economista Federico Caffè nell’introdurre allora il libro metteva in guardia dal successo neomanchesteriano del suo titolo, criticando la riscoperta del mercato che allora si stava compiendo negli Stati Uniti e non solo, culminando entro poco nel trionfo della presidenza di Ronald Reagan. Ora, se questa analisi vantava ragioni interessanti come quando documentava quanto il settore pubblico fosse necessario per socializzare le perdite di “imprenditori bravi nella prosperità, ma assai meno nelle difficoltà” (beh, in Italia ne sappiamo qualcosa, vedi la Fiat), resta il fatto che la Crisi Fiscale dello Stato è rimasta endemica alla società americana e anche italiana per decenni, ma è solo con l’euro e con i vincoli europei che è diventata effettivamente un peso insopportabile.

La funzione sociale della spesa, e la sua relazione incestuosa con i monopoli capitalistici si è largamente arenata. Impraticabile la svalutazione, impedita l’inflazione, la macchina dello stato, gonfiata nel tempo di personale e costi oltre ogni immaginazione, è ormai difficilmente riformabile con piccoli aggiustamenti. Servirebbe un atto politico d’imperio largamente sostenuto. Una sorta di Piano Marshall del “dimagrimento”, dove un pur lento ma certo snellimento della funzione pubblica attivi e renda esterne funzioni sociali ed economiche stimolando impegni e lavoro nuovo.
Come viene osservato da più parti l'enorme debito pubblico italiano - oltre 2mila miliardi – continua a crescere nonostante la tassazione stellare. Per ripagarlo servirebbe una crescita economica significativa, che non c'è. E che nelle condizioni in cui versa l'economia italiana - tassazione oltre il 50%, mercato del lavoro ingessato, pesante oppressione burocratica - è pura utopia.

Nei prossimi 3 anni sono 1000 i miliardi di debito italiano in scadenza (per la cronaca il famoso fondo Salva Stati ha una dotazione di 400 miliardi...). La celebre lettera della BCE dello scorso anno - che peraltro continua a prestare soldi alla nostre banche, ma ricordiamoci che non lo fa gratis... – chiedeva nel merito tagli pesanti alla spesa pubblica, contemplando anche la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici che - per ora - non viene nominata. Lo Stato evidentemente preferisce non pagare i fornitori – argomento dibattutissimo, ma abbastanza inutilmente - e questo è un ulteriore colpo micidiale alla crescita economica.

Va detto, per onore di cronaca, che il debito pubblico stratosferico non è prerogativa italiana. Gli Stati Uniti per esempio sono a oltre 16mila miliardi di dollari, con un ritmo di incremento di 3,4 miliardi al giorno, il Giappone è a 10mila miliardi di dollari, il doppio del suo PIL. L’aumento del debito è tecnicamente possibile negli Stati Uniti dove la Federal Reserve stampa moneta e la presta allo stato trasformandola in un debito che probabilmente non verrà mai ripagato, ma la questione vera è fare in modo che sia sostenibile con un trend di crescita significativo. Poi gli Stati Uniti hanno la Forza… ma qui mi fermo.
In Italia per vedere la luce oltre la siepe, affrontando il sottodimensionamento dell’economia e la disoccupazione elevata, ci sono solo due strade vere: la sburocratizzazione della vita del cittadino e la riduzione dell’insostenibile pressione fiscale. Invece tutti, dalla Stato centrale ai comuni, sono tesi ad aumentare il gettito, incapaci di aggredire la voracità del settore pubblico.
La stessa morsa europea sui conti pubblici – pensata da molti come una costrizione efficace - non è invece riuscita a spingere la classe politica verso una rinnovata virtuosità, e al contrario sollecita solo ennesimi appetiti fiscali.

Ogni discorso sulla riduzione delle tasse, indipendentemente dai giochi dialettici con i quali viene prospettato – chi lo affida al recupero dell’evasione fiscale sa che non può essere così, in larga parte gli accertamenti iscrivono in bilancio cifre enormi, ma sulla loro effettiva esigibilità beh, altro che dubbi… - chi punta sulla riduzione del cuneo fiscale e delle tasse sul lavoro e imprese dovrà poi suggerire come recuperare le risorse perdute, ecco quindi nel mirino i patrimoni, mobiliari e immobiliari, e i consumi, aumentando l’Iva. Insomma una partita di giro che alla fine non porta da nessuna parte.

Non ci facciamo illusioni. Se questo è il quadro di ciò che serve – aggiungete il discorso sul credito bancario; una vera liberalizzazione del mercato del lavoro che premi il merito e dia spazio e opportunità ai bisogni; il rilancio degli investimenti in infrastrutture e ricerca; una riforma, che dico, una rivoluzione, del sistema dell’istruzione oggi palesemente inadeguato e piegato agli interessi delle lobby baronali… - bene, esso verrà eluso.
Del resto la sinistra italiana che si appresta (forse) a prevalere affonda le proprie radici elettorali nel pubblico impiego ed è quindi praticamente impossibile che intervenga seriamente. Ma anche l’attuale centro destra, al di la delle narrazioni liberal-liberiste, ben poco ha detto e fatto in questo senso.

Per i ceti produttivi del paese lo scenario è dunque fosco. E non solo per loro, ovvio. Eppure proprio lo stato delle cose spinge verso qualcosa di importante, per sottrarsi ad una situazione di rinuncia. C’è in Italia uno spazio enorme per dare vita ad un nuovo soggetto politico capace di pesare nel quadro politico e affrontare con chiarezza e senza ambiguità questa situazione. Forse non sarà da subito un partito, sarà un movimento, un’influente lobby sociale, ma un soggetto realmente nuovo, che risale dal cuore della società e mira un orizzonte politico.
Un soggetto politico capace di ripensare e riproporre il concetto saliente dell’Interesse Nazionale. Nel nuovo contesto europeo, in rapporto al ruolo assunto dalla Germania, e alle politiche monetarie, normative ed economiche imposte da Bruxelles. È assolutamente necessaria una nuova interpretazione dello Spirito Nazionale. L’Italia non può soccombere ai diktat tedeschi, e forte del suo insediamento nel Mediterraneo deve costruirsi un ruolo originale nel confronto europeo rivendicando la propria identità e posizione geopolitica.

Last but not least il problema giustizia. In Italia una riforma è ineludibile. La Magistratura fa e disfà ciò che non aggrada e la Politica è sotto scacco. Senza ricostruire un rapporto corretto tra i due poteri non si va da nessuna parte perché è evidente che una politica che metta in discussione certi assetti e interessi può essere ormai troppo facilmente stroncata. Basta un avviso.
 

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